Il Natale del 1833 - Rime di Devozione
Sì, che tu sei terribile!
Sì, che in quei lini ascoso,
In braccio a quella Vergine,
Sovra quel sen pietoso,
Come da sopra i turbini
Regni, o Fanciul severo!
È fato il tuo pensiero,
È legge il tuo vagir.
Vedi le nostre lagrime,
Intendi i nostri gridi,
Il voler nostro interroghi,
E a tuo voler decidi.
Mentre, a stornare il fulmine
Trepido il prego ascende,
Sordo il tuo fulmin scende
Dove tu vuoi ferir.
Ma tu pur nasci a piangere;
Ma da quel cor ferito
Sorgerà pure un gemito,
Un prego inesaudito;
E Questa tua fra gli uomini
Unicamente amata,
Nel guardo tuo beata,
Ebra del tuo respir,
Vezzi or ti fa; ti supplica
Suo pargolo, suo Dio;
Ti stringe al cor, che attonito
Va ripetendo: È mio!
Un dì con altro palpito,
Un dì con altra fronte,
Ti seguirà sul monte,
E ti vedrà morir.
Onnipotente...
L'essere
tu puoi schiacciar nel nulla,
e il cosmo puoi dissolvere
dall'umile tua culla;
dall'alto dell'Empireo
tu'l puoi, Onnipotente,
ma piccolo e piangente
fatto ti sei per me;
ma morirai sul Golgota
tra sofferenze atroci,
in una scia immettendoti
di innumerate croci;
e se sul colle d'Efrata
tu vieni oggi nel mondo,
in questo dì giocondo
già quel supplizio c'è.
La mangiatoia povera
del santo tuo Natale
assume già l'immagine
di pietra sepolcrale;
la veste tua è un sudario,
è il tuo vagir lo strillo
che nell'estremo assillo
al Padre lancerai;
la tua gaudiosa nascita
val sol per la tua morte,
varchi il cancel d'Elisio
per ire all'atre porte;
gloria e terror t'attendono,
ma accetti tu ambedue,
e per le doglie tue
Signor ti chiamerai!
Infatti tu sei l'unico,
Gesù, che mi consoli;
tu che la mia amatissima
consorte già mi involi;
tu che col cor mi sradichi
la mia adorata moglie,
[ il Dio che me la toglie,
il Dio che me la diè; ]
tu che permani tacito
mercé le mie preghiere;
tu che non muovi un muscolo
quand'io sto per cadere;
tu che disponi un termine
ai giorni che ci desti,
[ ti vorrei dir: che festi?
Ti vorrei dir: perché? ]
Eppure, mentre flebile
[il mio lamento spira,]
lo sguardo pien di lacrime
il crocifisso mira,
e al labbro sgorga un rantolo:
o Cristo, [che siam noi?
Non perdonasti ai tuoi,
non perdonasti a te!]
Così, il mio triste scandalo
la croce tua mi addita,
[donde mi viene un alito,
un alito di vita;]
tu parli nel silenzio,
sei nella notte giorno:
[morrò, s'io non ritorno,
culla beata, a te!]
E tu, tra gli umili umile,
tu, Madre del dolore,
cui i perfidi trafiggono
perpetuamente il cuore,
le cui pietose suppliche
ascolta sempre Iddio,
e col Signor tuo e mio
vivrai sempre lassù;
tu sai che cos'è il piangere,
tu sai cos'è il tremare,
poi che sentisti il popolo
Barabba reclamare,
poi che il tuo sguardo placido
[s'estinse sulla croce,
che ti morì la voce
nel nome di Gesù.]
Guarda ai tuoi figli miseri,
dolenti e derelitti,
nel lacrimoso esilio
tra il sangue ed i delitti,
tra il mal fatto con gaudio,
tra guerre e dittature
che strazian l'alme pure
nel modo più crudel.
Signora, non permettere
che l'uom due volte muoia;
dall'Orco fai risorgere
del Suo Natal la gioia!
La luce fai risplendere
della divina speme,
ché un dì ritorni insieme
ad Enrichetta in ciel.
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