Le poesie di Alessandro Manzoni: Urania - Poemetti
ID Autore: 2338 ID Testo: 8740
Testo online da domenica 10 novembre 2013 Ultima modifica del domenica 10 novembre 2013 Scritto nel 1809
Urania - Poemetti
Su le populee rive e sul bel pianoDa le insubri cavalle esercitato,Ove di selva coronate attolleLa mia città le favolose mura,Prego, suoni quest'Inno: e se pur degnaPenne comporgli di più largo voloLa nostra Musa, o sacri colli, o d'ArnoSposa gentil, che a te gradito ei vegnaChieggo a le Grazie. Ché dai passi primiNel terrestre viaggio, ove il desioCrudel compagno è de la via, profondoMi sollecita amor che Italia un giornoMe de' suoi vati al drappel sacro aggiunga,Italia, ospizio de le Muse antico.Né fuggitive dai laureti acheiAltrove il seggio de l'eterno esiglioPoser le Dive; e quando a la latinaDonna si feo l'invendicato oltraggio,Dal barbaro ululato impauriteTacquero, è ver, ma l'infelice amicaMai non lasciar; ché ad alte cose al fineL'itala Poesia, bella, aspettata,Mirabil virgo, da le turpi emerseUnniche nozze. E tu le bende e il mantoPrimo le desti, e ad illibate fontiLa conducesti; e ne le danze sacreTu le insegnasti ad emular la madre,Tu de l'ira maestro e del sorriso,Divo Alighier, le fosti. In lunga notteGiaceva il mondo, e tu splendevi solo,Tu nostro: e tale, allor che il guardo primoSu la vedova terra il sole invia,Nol sa la valle ancora e la corteseVital pioggia di luce ancor non beve,E già dorata il monte erge la cima.A queste alme d'Italia abitatriciDi lodi un serto in pria non colte or tesso;Ché vil fra 'l volgo odo vagar parolaChe le Dive sorelle osa insultandoInterrogar che valga a l'infeliceMortal del canto il dono. Onde una bramaIn cor mi sorge di cantar gli antichiBeneficj che prodighe a l'ingratoRecar le Muse. Urania al suo dilettoPindaro li cantò. Perché di tantoDegnò la Dea l'alto poeta e come,Dirò da prima; indi i celesti accentiRicorderò, se amica ella m'ispira.Fama è che a lui ne la vocal tenzoneRapisse il lauro la minor CorinnaMisero! e non sapea di quanto dioL'ira il premea; ché a la famosa DelfoVenendo, i poggi d'Elicona e il fonteDel bel Permesso ei salutando ascese;Ma d'Orcomene, ove le Grazie han culto,Il cammin sacro omise. Il dévio passoVider da lunge e il non curar superboDel fatal giovanetto le Immortali,E promiser vendetta. Al meditatoInno di lode liberato il voloPindaro avea, quando le belle irate,Aerie forme a mortal guardo mute,Venner seconde di Corinna al fianco.Aglaja in pria su la virginea gotaSparse un fulgor di rosea luce, e un miteRaggio di gioja le diffuse in fronte:Ma la fragranza de' castalj fioriChe fanno l'opra de l'ingegno eterna,Eufrosine le diede; e tu pur anco,Dolce qual tibia di notturno amante,Lene Talia, le modulasti il canto.Di tanti doni avventurata in mezzoCorinna assurse: il portamento e il voltoStupia la turba, e il dubitar leggiadroE il bel rossor con che tremando al senoPosò la cetra; e, sotto la palpebraMezza velando la pupilla bruna,Soave incominciò. Volava intornoLa divina armonia che, con le molliAle i cupidi orecchi accarezzando,Compungea gl'intelletti, e di giocondoBrivido i cori percotea. RapitoL'emulo anch'ei, non alito, non ciglioMovea, né pria de' sensi ebbe ripresaLa signoria, che verdeggiar la frondaInvidiata vide in su le nereTrecce di lei, che fra il romor del plausoChinò la bella gota ove saliaDel gaudio mista e del pudor la fiamma.Di dolor punto e di vergogna, al volgoL'egregio vinto si sottrasse, e soloSul verde clivo, onde l'aeria fronteSpinge il Parnaso, s'avviò. DolenteErrar da l'alto Licoreo lo scòrseUrania Dea, cui fu diletto il fatoDel giovanetto, e di blandir sua curaNel pio voler propose. È nei ripostiDel sacro monte avvolgimenti un boscoRomito, opaco, ove talor le Muse,Sotto il tremolo rezzo esercitandoL'ambrosio piè, ringioviniscon l'erbeDa mortal orma non offese ancora.A l'entrar de la selva, e sovra il lemboDel vel che la tacente ombra distende,Balza l'Estro animoso, e de le acceseMenti il Diletto, e, ne la palma alzataDimettendo la fronte, il PensamentoSta col Silenzio, che per man lo tiene.Bella figlia del Tempo e di MinervaV'è la Gloria, sospir di mille amanti:Vede la schiva i mille, e ad un sorride.Ivi il trasse la Diva. A l'appressarsi,De l'aura sacra a l'aspirar, di lietoOrror compreso in ogni vena il sangueSentia l'eletto, ed una fiamma leveLambir la fronte ed occupar l'ingegno.Poi che ne l'alto de la selva il poseNon conscio passo, abbandonò l'altezzaDel solitario trono, e nel segretoAsilo Urania il prode alunno aggiunse.Come tal volta ad uom rassembra in sogno,Su lunga scala o per dirupo, lieveScorrer col piè non alternato a l'imo,Né mai grado calcar né offender sasso;Tal su gli aerei gioghi sorvolando,Discendea la celeste. Indi la fronteSpoglia di raggi, e d'ale il tergo, e velaD'umana forma il dio; Mirtide fassi,Mirtide già de' carmi e de la liraA Pindaro maestra; e tal repenteA lui s'offerse. Ei di rossor dipinto,A che, disse, ne vieni? a mirar forseIl mio rossore? o madre, oh! perché tantaSpeme d'onor mi lusingasti in vano?Come la madre al fantolin caduto,Mentre lieto al suo piè movea tumulto,Che guata impaurito, e già sul ciglioTurgida appar la lagrimetta, ed ellaNel suo trepido cor contiene il grido,E blandamente gli sorride in voltoPerch'ei non pianga; un tal divino riso,Con questi detti, a lui la Musa aperse:A confortarti io vegno. Onde sì ratto"L'anima tua è da viltate offesa"?Non senza il nume de le Muse, o figlio,Di te tant'alto io promettea. Deh! come,Pindaro rispondea, cura dei vatiAver le Muse io crederò? Se cultoPlacabil mai de gl'Immortali alcunoRendesse a l'uom, chi mai d'ostie e di lodi,Chi più di me di preci e di cor puroVenerò le Camene? Or se del mioDolor ti duoli, proseguia, deh! vogliL'egro mio spirto consolar col canto.Tacque il labro, ma il volto ancor pregava,Qual d'uom che d'udire arda, e fra sé temaDi far parlando a la risposta indugio.Allor su l'erba s'adagiaro: il plettroUrania prese, e gli accordò quest'InnoChe in minor suono il canto mio ripete.- Fra le tazze d'ambrosia imporporate,Concittadine degli Eterni e giojaDe' paterni conviti eran le MuseNe' palagi d'Olimpo, e le terreneValli non use a visitar; ma primo,Scola e conforto de la vita, in terraDi Giove il cenno le inviò. VedeaGiove da l'alto serpeggiar già foltaLa vaga mortale orma, e sotto il pondoDi tutti i mali andar curvata e ciecaL'umana stirpe: del rapito focoPiena gli parve la vendetta; e a l'iraSpuntate avea l'acri saette il tempo.Alfin più mite ne l'eterno sennoConsiglio il Padre accolse, ed, Assai, disse,E troppo omai le Dire empio governoFer de la terra; assai ne' petti umaniCommiser d'odj, e volser prone al peggioLe mortali sentenze. Di feliciGenj una schiera al Dio facea corona,Inclita schiera di Virtù (ché taleSuona qua giù lor nome). A questi in priaScorrer la terra e perseguir le crudeDe l'uom nemiche ed a più miti voglieRicondur l'infelice, impose il Dio.Al basso mondo ove la luce alterna,Sceser gli spirti obbedienti, e tuttoRicercarlo, ma in van; ché non levossiA tanto raggio de' mortali il guardo;E di Giove il voler non s'adempìa.Però baldanza a quel voler non tolseDifficoltà che a l'impotente è freno,Stimolo al forte; essa al pensier di GioveNovo propose esperimento. Al descoDel Tonante le Muse una concordeMovean d'inni esultanza; inebriateTacean le menti de gli Dei; fe' cennoEi la destra librando; e la crescenteDel volubile canto onda ristetteImprovviso. Raggiò pacato il guardoA le Vergini il Padre; e questo ad elleD'amor temprato fe' volar comando,Figlie, a bell'opra il mio voler ministreElegge or voi. Non conosciute ancoraErrar vedete le Virtù fra i ciechiFigli di Pirra: d'amor santo indarnoArder tentaro i duri petti, e vinteFarsi de l'ardue menti aprir le porte:La forza sol de l'arti vostre il puote:Là giù dunque movete: a voi seguaciVengan le Grazie; e senza voi men bellaGià la mia reggia il tornar vostro attende.Tacque a tanto il Saturnio; e su gli estremiDetti, dal ciglio e da le labra riseBlandamente. Al divino atto commossaBalzò l'eterea vetta, e d'improvvisoDi tutta luce biondeggiò l'Olimpo.Nel primo aspetto de la terra intantoIl lungo duol de le Virtù negletteVider le Muse: ma di lor la primaChi fu che volse le propizie cureI bei precetti ad avverar del Padre?Calliope fu che fra i mortali accortaOrfeo trascelse; e sì l'amò che il nomeA lui di figlio non negò. VicinaA l'orecchio di lui, ma non veduta,Stette la Diva, e de l'alunno al coreSciolse la bella voce onde si noma.Il bel consiglio di Calliope tutteImitar le sorelle; e d'un elettoMortal maestra al par fatta ciascuna,L'alme col canto ivan tentando, e l'iraVincea quel canto de le ferree menti.Così dal sangue e dal ferino istintoTolser quei pochi in prima; indi lo sguardoDi lor, che a terra ancor tenea il costumeChe del passato l'avvenir fa servo,Levar di nova forza avvalorato.E quei gli occhi giraro, e vider tuttaLa compagnia de gli stranier divini,Che a le Dire fea guerra. Ove furenteImperversar la Crudeltà solea,Orribil mostro che ferisce e ride,Vider Pietà che, mollemente intornoAi cor fremendo, dei veduti maliDolor chiedea; Pietà, de gl'infeliciSorriso, amabil Dea. Feroce e stoltaCon alta fronte passeggiar l'OffesaVider, gl'ingegni provocando, e miteOvunque un Genio a quella Furia opporsi,Lo spontaneo Perdon che con la destraCancella il torto e nella manca recaIl beneficio, e l'uno e l'altro obblia.Blando a la Dira ei s'offeria: seguaceLenta ma certa, l'orme sue ricalcaNemesi, e quando inesaudito il vede,Non fa motto, ed aspetta. Un giorno al fineNe gl'iterati giri, orba dinanziLe vien l'Offesa: al tacit' arco imponeNemesi allor l'amata pena; aggiungeL'aerea punta impreveduta il fianco,E l'empio corso allenta. InonorataLa Fatica mirar, che gli ermi intornoCampi invano additava, a cui per ancoNon chiedea de la messe il pigro ferroGli aurei doni dovuti: a lei compagnoL'Onor si fea; se forse a la sua lucePiù cara a l'occhio del mortal venisseL'utile Dea. Vider la Fede, immotaServatrice dei giuri, e l'arridenteOspital Genio che gl'ignoti astringeDi fraterna catena; e tutta in fineLa schiera dia ne l'opra affaticarsi.Videro, e novo di pietà, d'amoreNe gli attoniti surse animi un senso,Che infiammando occupolli. E già de' lietiPrincipj in cor secure, il plettro e l'arteSacra del plettro ai figli lor le MuseDonar, le Grazie il dilettar donaroE il suader potente. Essi a la turbaDei vaganti fratelli ivan cantandoLe vedute bellezze. Al suon che primoSi sparse a l'aura, dispogliò l'anticoSquallor la terra, e rise: e tu qual fosti,Che provasti, o mortal, quando sul coreLa prima stilla d'armonia ti scese?Quale a l'ara de' Numi allor che il sacroTripode ferve, e tremolando rosseSu le brage stridenti erran le fiamme,Se la man pia del sacerdote in esseVersi copia d'incenso, ecco di brunoPallor vestirsi il foco, e dal placatoArdor repente un vortice s'innalzaTacito, e tutto d'odorata nebbiaTurba l'etere intorno e lo ricrea;Tal su i cori cadea rorido, e l'iraV'ammorzava quel canto, e dolce, in vece,Di carità, di pace vi destavaIgnota brama. A l'uom così le primeVirtù fur conosciute onde beata,Quanto ad uom lice, e riposata e bellaFassi la vita. Allor in cor portandoIl piacer de l'evento, e la divinaGiocondità del beneficio in fronte,A l'auree torri de l'Olimpo il voloRialzar le Camene. Ivi le proveDe l'alma impresa e le fatiche e il fineDissero al Padre; e pieno, in ascoltarle,Da la bocca di lui scorrea quel dolceCanto a l'orecchio dei miglior, la lode.Ma stagion lunga ancor volta non era,Che ne le Nove ritornate un caroDe la terra desio nacque; ché amenoOltre ogni loco a rivedersi è quelloChe un gentil fatto ti rimembri: e questaElesser sede che secreta intornoReligion circonda, e, l'arti anticheEsercitando ancor, l'aura divinaSpirano a pochi in fra i viventi, e dànnoColpir le menti d'immortal parola.E te dal nascer tuo benigna in curaEbbe, o Pindaro, Urania. E s'oggi, o figlio,Tanto amor non ti valse, ell'è d'un NumeVendetta: incauto, che a le Grazie il cultoNegasti, a l'alme del favor ministreDee, senza cui né gl'Immortai son usiMover mai danza o moderar convito.Da lor sol vien se cosa in fra i mortaliÈ di gentile, e sol qua giù nel cantoVivrà che lingua dal pensier profondoCon la fortuna de le Grazie attinga;Queste implora coi voti, ed al perdonoFacili or piega. E la rapita lodePiù non ti dolga. A giovin quercia accantoTalor felce orgogliosa il suolo usurpa,E cresce in selva, e il gentil ramo eccedeCol breve onor de le digiune frondi:Ed ecco il verno la dissipa; e intantoTacitamente il solitario arbustoGran parte abbranca di terreno, e, milleRami nutrendo nel felice tronco,Al grato pellegrin l'ombra prepara.Signor così de gl'inni eterni, un giorno,Solo in Olimpia regnerai: compagnaQuesta lira al tuo canto, a te soventeIl tuo destino e l'amor mio rimembri. -Tacque, e porse la cetra: indi rivolta,Candida luce la ricinse: aperteLe azzurre penne s'agitar sul tergo,Mentre nel folto de la selva al guardoDel suo Poeta s'involò. La DivaEi riconobbe, e di terror, di lietaMaraviglia compunto, il preziosoDono tenea: ne l'infiammata fronteFremean d'Urania le parole e l'altaPromessa e il fato: e la commossa corda,Memore ancor del pollice divino,Con lungo mormorar gli rispondea.
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