Le poesie di Alessandro Manzoni: Del trionfo della libertà - Canto IV - Poemetti
ID Autore: 2338 ID Testo: 8739
Testo online da domenica 10 novembre 2013 Ultima modifica del domenica 10 novembre 2013 Scritto nel 1801
Del trionfo della libertà - Canto IV - Poemetti
Tacque ciò detto, e su l'enfiate labbiaGorgogliava un suon muto di vendetta,Un fremer sordo d'intestina rabbia.E le affollate intorno ombre, "vendetta"Gridar, "vendetta", e la commossa rivaInorridita replicò "vendetta".I torbid'occhi il crino a lui copriva;Fascio parea di vepri o di gramigna,Onde un'atra erompea luce furtiva;Come veggiamo il sol, se una sanguignaNugola il raggio ne rinfrange, obbliquaVibrar l'incerta luce e ferrugigna.Ahi di Tiranni ria semenza iniqua,De gli uomini nimica e di natura,Or hai pur spenta l'empia sete antiqua!Gonfia di sangue la corrente e impuraPortò l'umil Sebeto, e de la crudaNovella Tebe flagellò le mura.Tigre inumana di pietate ignuda,Tu sopravvivi a' tuoi delitti? un BrutoDov'è? chi 'l ferro a trucidarti snuda?Questi sensi io volgea per entro al mutoPensier, che tutto in quell'orror s'affisse,Allor che venne al mio veder vedutoD'Insubria il Genio, che le luci fisseIn me tenendo, armoniosa e scortaVoce disciolse, e scintillando disse:Mortal, quello che udrai là giuso porta.Deh! gli alti detti a la mal ferma e stancaMente richiama, o Musa, e mi sia scorta.Tu la cadente poesia rinfranca,Tu la rivesti d'armonia beata,E tu sostieni la virtù, che manca;Tu l'ali al pensier presta, o Diva nataDi Mnemosine, e fa' che del mio plettroEsca la voce ai colti orecchi grata,E spargi i detti miei d'eterno elettro.Già, proseguiva, del real potereSei sciolta, Insubria, e infranto hai l'empio scettro.Ché gli ubertosi colli e le riviere,Ove Natura a se medesma piace,No, che non son per le Tedesche fiere.Pace altra volta tu le desti, pace,O Tiranno, giurasti, e udir le gentiIl real giuro, e lo credean verace.Ma di Tiranno fede i sacramentiFrange e calpesta, e la legge de' troniSon gl'inganni, i spergiuri, i tradimenti.Venne in fin dai settemplici trioni,Da te chiamato, e da le fredde rupiUn torrente di bruti e di ladroni.Come in aperto ovile iberni lupi,Tal su l'Insubria si gittar quegli empi,Di sangue ghiotti, di rapine e strupi.Fino i sacri vestibuli di scempiMacchiaro e d'adulteri. Oh quali etatiFur mai feconde di siffatti esempi?Ma non fur quegli insulti invendicati,Né il vizio trionfò: l'infame trescaFranse il ferro e 'l valor: gli addormentatiSpirti destarsi alfin, e la TedescaRabbia fu doma, e le fiaccò le cornaLa virtù Cisalpina e la Francesca.Torna, arrogante a questi lidi, torna;Qui roco ancor di morte il telo romba,Qui la tua morte appiattata soggiorna.Qui il cavo suol de' sepolcri rimbombaDe la tua pube, che ancor par che gema:Vieni in Italia, e troverai la tomba.Altra volta scendesti avido, e scemaTi fu l'audacia temeraria e sciocca:Rammenta i campi di Marengo, e trema.Ché la fatal misura ancor trabocca;Non affrettar de la vendetta il die,Il dì che impaziente è su la cocca.Pace avesti pur anco, e questa fieLa novissima volta; in l'alemannoConfin le tigri tue frena e le arpie.Ma tu, misera Insubria, d'un TirannoScotesti il giogo, ma t'opprimon mille.Ahi che d'uno passasti in altro affanno!Gentili masnadieri in le tue villeSuccedettero ai fieri, e a genti estraneSon le tue voglie e le tue forze ancille.Langue il popol per fame, e grida: "pane";E in gozzoviglia stansi e in esultanzaLe Frini e i Duci, turba, che di vaneLarve di fasto gonfia e di burbanza,Spregia il volgo, onde nacque, e a cui comanda,A piena bocca sclamando: Eguaglianza;Il volgo, che i delitti e la nefandaVita vedendo, le prime cateneSospira, e 'l suo Tiranno al ciel domanda.De l'inope e del ricco entro le veneSuccian l'adipe e 'l sangue, onde ParigiTanto s'ingrassa, e le midolle ha piene.E i tuoi figli? I tuoi figli abbietti e ligiStrisciangli intorno in atto umile e chino.E tal di risse amante e di litigiD'invido morso addenta il suo vicino,Contra il nemico timido e vigliacco,Ma coraggioso incontro al cittadino.Tal ne' vizj s'avvolge, come ciaccoNel lordo loto fa; soldato espertoNe' conflitti di Venere e di Bacco.E tal di mirto al vergognoso sertoIl lauro sanguinoso aggiunger vuole,Ricco d'audacia, e povero di merto.Tal pasce il volgo di sonanti fole:Vile! e di patrio amor par tutto accenso,E liberal non è che di parole.E questi studio d'allargare il censoAvito rode, e quel tal altro bramaDi farsi ricco di tesoro immenso.Senti costui, che "morte, morte" esclama,E le vie scorre, furibonda Erinni,Di sangue ingordo, e dove può si sfama.Vedi quei, che sua gloria nei concinniCapei ripone. Oh generosi SpirtiDegni del giogo estranio e de' cachinni!Odimi, Insubria. I dormigliosi spirtiRisveglia alfine, e da l'olente chiomaGetta sdegnosa gli Acidalj mirti.Ve' come t'hanno sottomessa e doma,Prima il Tedesco e Roman giogo, e poiLa Tirannia, che Libertà si noma.Mira le membra illividite e i tuoiAntichi lacci; l'armi, l'armi appresta,Sorgi, ed emula in campo i Franchi Eroi.E a l'elmo antico la dimessa crestaRimetti, e accendi i neghittosi cori,E stringi l'asta ai regnator funesta;Come destrier, che fra l'erbette e i fiori,Placido, in diuturno ozio recuba,Sol meditando vergognosi amori,Scote nitrendo la nitente giuba,Se il torpido a ferirlo orecchio giugneCupo clangor di bellicosa tuba,E stimol fiero di gloria lo pugne,Drizza il capo, e l'orecchio al suono inchina,E l'indegno terren scalpe con l'ugne.Contra i Tiranni sol la cittadinaRabbia rivolgi, e tienti in mente fiso,Che fosti serva, ed or sarai reina.Disse e tacque, raggiandomi d'un riso,Che del mio spirto superò la forza,Così ch'io ne restai vinto e conquiso.Mi scossi, e la rapita anima a forza,Come chi tenta fuggire e non puote,Cacciata fu ne la mortale scorza.Io restai come quel che si riscoteDa mirabile sogno, che pon menteSe dorme o veglia, e tien le ciglia immote.O Pieride Dea, che 'l foco ardenteIspirasti al mio petto, e i sempiterniVanni ponesti a la gagliarda mente,Tu, Dea, gl'ingegni e i cor reggi e governi,E i nomi incidi nel Pierio legno,Che non soggiace al variar de' verni.Tu l'ali impenni al Ferrarese ingegno,Tu co' suoi divi carmi il vizio fiedi,E volgi l'alme a glorioso segno.Salve, o Cigno divin, che acuti spiediFai de' tuoi carmi, e trapassando pungiLa vil ciurmaglia, che ti striscia ai piedi.Tu il gran Cantor di Beatrice aggiungi,E l'avanzi talor; d'invidia pieneTi rimiran le felle alme da lungi,Che non bagnar le labbia in Ippocrene,Ma le tuffar ne le Stinfalie fogne,Onde tal puzzo da' lor carmi viene.Oh limacciosi vermi! Oh rie vergogneDe l'arte sacra! Augei palustri e bassi;Cigni non già, ma Corvi da carogne.Ma tu l'invida turba addietro lassi,E le robuste penne ergendo, comeAquila altera, li compiangi, e passi.Invano atro velen sovra il tuo nomeSparge l'invidia, al proprio danno industre,Da le inquiete sibilanti chiome.Ed io puranco, ed io, Vate trilustre,Io ti seguo da lunge, e il tuo gran lumeA me fo scorta ne l'arringo illustre.E te veggendo su l'erto cacumeAscender di Parnaso alma spedita,Già sento al volo mio crescer le piume.Forse, oh che spero! io la seconda vitaVivrò, se a le mie forze inferme e fraliLe nove Suore porgeranno aita.Ma dove mi trasporti, estro? mortaliSon le mie penne, e periglioso il volo,Alta e sublime è la caduta; l'aliPerò raccogli, e riposiamci al suolo.
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