Le poesie di Alessandro Manzoni: Del trionfo della libertà - Canto II - Poemetti
ID Autore: 2338 ID Testo: 8737
Testo online da domenica 10 novembre 2013 Ultima modifica del domenica 10 novembre 2013 Scritto nel 1801
Del trionfo della libertà - Canto II - Poemetti
Col pensier, con gli orecchi e con le cigliaI' era immerso in quell'altera vista,Come colui che tace e maraviglia;Qual dicon che de' Spirti in fra la lista,Stette mirando le magiche noteIl furente di Patmo Evangelista.Quand'io vidi la Dea, che su l'immoteMaladette sorelle il cocchio spinse,E su le infami cigolar le rote,Primamente un terror freddo mi strinse,Poi surse in petto con subita forzaLa letizia, che l'altro affetto estinse.Qual se fiamma divora arida scorzaAvidamente, e d'improvviso d'acqueTalun l'inonda, subito s'ammorza,Così sotto la gioja il timor giacque;Poi surse un novo di stupore affetto,E l'uno e l'altro moto in sen mi tacque.Però ch'io vidi un bel drappello elettoDi Lor che sordi furo al proprio danno,Caldi d'amor di Libertade il petto.Vidi colui che contro al rio TirannoFe' la vendetta del superbo strupo,Poi che s'avvide del lascivo inganno,E corse furioso, come lupo,Se mai rapace cacciator gli furaI cari figli dal natio dirupo.E seco è Lei, che d'alma intatta e pura,Benché polluta ne la spoglia in vita,Lavò col sangue la non sua lordura.Quei che ritolse ai figli suoi la vita,Poi che ne fero uso malvagio e rio,Immolando a la Patria, ostia gradita,L'affetto di parente, e dir s'udio:Quei che di fede a la sua patria mancaNon è figlio di Roma, e non è mio.Siegue Quei che la destra ardita e francaCacciò fremendo ne le fiamme pie,E fe' tremar Porsenna colla manca.Ve' la Vergin che corse a le natiePiaggie, fuggendo del Tiranno l'onte,Per le amiche del Tebro ospite vie.Ecco quel forte, che al famoso ponteContra l'Etruria congiurata tenneFerme le piante e immobile la fronte.E l'urto d'un esercito sostenne,E contra mille e mille lancie stette,Onde immortale a' posteri divenne.Ma ben poria le più sottili erbetteAnnoverar nel prato e 'n ciel le stelleE le arene nel mar minute e stretteChi noverar volesse l'alme belleCh'ivi eran, di valore inclito speglio,Sol de la Patria e di Virtute ancelle.Sorgea fra gli altri il generoso Veglio,Che involò del Tiranno ai sozzi orgogliLa figlia intatta, e ben fu morte il meglio.Fu la figlia che disse al padre: CogliQuesto immaturo fior: tu mi donastiQueste misere membra, e tu le togli,Pria che impudico ardir le incesti e guasti;E in quello cadde il colpo, e impallidiroLe guancie e i membri intemerati e casti,E uscì dal puro sen l'ultimo spiro,Ed a la vista orribile fremeaIl superbo e deluso Decemviro,Cui stimolava la digiuna e reaLibidine, e struggea l'insana rabbia,Che i già protesi invan nervi rodea;Qual lupo, che la preda perdut'abbia,Batte per fame l'avida mascella,Rugge, e s'addenta le digiune labbia.Quindi segue una coppia rara e bella,Che ria di ben oprar mercede colseAhi! da la Patria troppo ingrata e fella.V'è quel grande che Roma ai ceppi tolse,Indi de l'Afro le superbe mineE le audaci speranze in lui rivolse:Per cui sovra le libiche ruineVide Roma discesa al gran tragittoIl fulgor de le fiaccole Latine.E quei che Magno detto era ed invitto,Che, insiem con Libertà, spoglia schernitaGiacque su l'infedel sabbia d'Egitto.V'era la non mai doma Alma, che arditaTemé la servitù più de la morte,Amò la Libertà più de la vita;Dicendo: Poi che la nimica sorteTanto è contraria a Libertate, e invanoLa terribile armò destra quel forte,Alzisi omai la generosa mano,E l'alma fugga pria che servir l'empio,Ch'io nacqui e vissi e vo' morir Romano.E seco è Lei, che con novello scempioDietro la fuggitiva LibertateCorse animata dal paterno esempio.Quindi un drappel venia d'ombre onorateSacre a la patria, che di sangue diroNe spruzzar le ruine inonorate.Bruto primo sorgea, che torvi in giroPria torse i lumi, indi a Roma gli volse,E da l'imo del cor trasse un sospiro.E a l'ombre circostanti si rivolse,In cui non fu la virtù patria doma,Indi la lingua in tai parole sciolse:Ahi cara Patria! Ahi Roma! ah! non più Roma,Or che strappotti il glorioso lauroInvida man da la vittrice chioma.Ov'è l'antico di virtù tesauro?Ove, ove una verace alma Latina?Ove un Curio, un Fabricio, ove uno Scauro?Ahi! de la Libertà l'ampia ruinaTutto si trasse ne la notte eterna,Ed or serva sei fatta di reina;Ché il celibe Levita ti governaCon le venali chiavi, ond'ei si vantaChiuder la porta e disserrar superna.E i Druidi porporati: oh casta, oh santaTurba di Lupi mansueti in mostra,Che de la spoglia de l'agnel s'ammanta!E il popol reverente a lor si prostraIn vile atto sommesso, e quasi DiiGli adora e cole: oh sua vergogna e nostra!Che valse a me di sacri ferri e piiArmar le destre, e franger la catena?Lasso! e per chi la grande impresa ardii?Spento un Tiranno, un altro surse, pienaDi schiavi de la terra era la Donna,Infin che strinse la temuta abenaQuei che la Galilea dimessa donnaTrasse dal fango, e i membri sozzi e nudiVestì di tolta altrui fulgida gonna;E maritolla a' suoi nefandi DrudiIncestamente, e al vecchio SacerdoteA la canna scappato e a le paludi,Che infallibil divino a le devoteGenti s'infinse, che a la Putta astutaPrestaro omaggio e le fornir la dote.E nel Roman bordello prostituta,Vile, superba, sozza e scellerataAl maggior offerente era venduta.Ivi un postribol fece, ove sfacciataFacea di sé mercato, ed a' suoi ProciDispensava ora un detto, ora un'occhiata.Ma poi che ferma in trono fu, ferociSensi vestì, l'armi si cinse, e infeceD'innocuo sangue le mal compre croci.E sue ministre ira e vendetta fece,L'inganno, la viltà, la scelleranza,E fe' sua legge: Quel che giova lece.Quindi la maladetta IntolleranzaDel detto e del pensier, quindi SofiaStretta in catene, e in trono l'Ignoranza.O ditel voi, che di saver sì riaMercede aveste di sospiri e piantoDa l'empia de l'ingegno tirannia.O ditel voi, ch'io già non son da tanto;Gridino l'ossa inonorate, e il suonoA l'Indo ne pervenga e al Garamanto.Questi i diletti de l'Eterno sono?Questi i ministri del divin volere?E questi è un Dio di pace e di perdono?Dillo, o gran Tosco, tu, che de le spereLibrasti il moto, e a' tuoi nepoti un varcoDi veritate apristi e di sapere.Contra te i dardi dal diabolic'arcoSfrenò l'invidia, e contra i tuoi sistemiIndarno trasse in campo e Luca e Marco.Empj! che di ragione i divi semiSpegner tentaro ne gli umani petti,E colpirono il ver con gli anatemi.Van predicando un Nume, e a' suoi precettiFan fronte apertamente, e a chi gl'imitaFulminan le censure e gl'interdetti.Povera, disprezzata, umil la vitaQuel che tu adori in Galilea menava,E tu suo servo in Roma un Sibarita.O greggia stolta, temeraria e prava,Che col suo Nume e con se stessa pugna;Di Dio non già, ma di sue voglie schiava.Altri nemico di se stesso impugnaCrudo flagello, e il sangue fonde, e 'l fura,A la Patria, e de' suoi dritti a la pugna,Devoto suicida, ed a la duraVerginità consacrasi, i desiriSoffocando e le voci di natura.Stolto crudel, che fai? de' tuoi martiriForse l'amante comun Padre frue?O si pasce di sangue e di sospiri?Oh stolto! Ei nel tuo core, Ei con le sueDita divine la diversa bramaPose Colui, che disse "sia", e fue.Ei con la voce di natura chiamaTutti ad amarsi, e gli uomini accompagna,E va d'ognuno al cor ripetendo: Ama.E tu fuggi colei che per compagnaEi ti diede, e i fratei credi nemici,E invan natura, invan grida e si lagna.E tal sotto i flagelli ed i ciliciCela i pugnali, e vassi a capo chinoMeditando veleni e malefici.O degenere figlia di Quirino,Che i tuoi prodi obliando, al GalileoCedesti i fasci del valor Latino,Questi sono i tuoi Cati, e in sul TarpeoDei nostri figli si fan scherno e gioco...Ma qui si tacque, e dir più non poteo;Ché tal la carità del natio locoLo strinse, e sì l'oppresse, che morioLa voce in un sospir languido e fioco.Quindi tra le commosse ombre s'udioSorgere un roco ed indistinto gemito,Poscia un cupo e profondo mormorio;Sì come allor che con interno tremitoQuassano i venti il suol che ne rimbomba,S'ode sonar da lunge un sordo fremito,Che tra le foglie via mormora e romba.
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