Le poesie di Alessandro Manzoni: Del trionfo della libertà - Canto I - Poemetti
ID Autore: 2338 ID Testo: 8736
Testo online da domenica 10 novembre 2013 Ultima modifica del domenica 10 novembre 2013 Scritto nel 1801
Del trionfo della libertà - Canto I - Poemetti
Coronata di rose e di violeScendea di Giano a rinserrar le porteLa bella Pace pel cammin del sole,E le spade stringea d'aspre ritorte,E cancellava con l'orme divineI luridi vestigi de la morte;E la canizie de le pigre brineScotean dal dorso, e de le verdi chiomeSi rivestian le valli e le colline;Quand'io fui tratto in parte, io non so come,Io non so con qual possa o con quai piume,Quasi sgravato da le terree some.E mi ferì le luci un vivo lume ,Ove non potea l'occhio essere inteso,E vinto fu del mio veder l'acume,Com'uom che da profondo sonno è preso,Se una vivida luce lo percote,Onde subitamente è l'occhio offeso,Le confuse palpebre agita e scote,Né può serrarle, né fissarle in lei,Che sua virtute sostener non puote;Così vinti cadevan gli occhi miei,Ma il Ciel forze lor diè più che mortali,Da sostener la vista de gli Dei.Non cred'io già che fosser questi fraliOcchi deboli e corti e spesso infidi,Cui non lice fissar cose immortali.Forse fu, s'egli è ver che in noi s'annidi,Parte miglior che de le membra è donna;Onde come io non so, so ben ch'io vidi.Vidi una Dea; nulla era in lei di donna,Non era l'andar suo cosa mortale ,Né mai fu tale che vestisse gonna.Di portamento altera , e quanta e qualeSu gli astri incede quella al maggior DioDel talamo consorte e del natale.Nobile, umano, maestoso e pioEra lo sguardo, e l'armonia celesteComprenderla non può chi non l'udio.Sovra l'uso mortal fulgida vesteCopre le sante immacolate membra,E svela in parte le fattezze oneste.Tessuta è in Paradiso, e un velo sembra;Ma a tanto già non giunge uman lavoro;Oh con quanto stupor me ne rimembra!Siede su cocchio di finissim'oroUmilemente altera, ed il decenneBerretto il crine affrena, aureo decoro.Stringe la manca la fatal bipenne,E l'altra il brando scotitor de' troni,Onde a cotanta altezza e poter venneLa gran madre de' Fabj e de' Scipioni;Sotto cui vide i Regi incatenatiCurvar l'alte cervici umili e proni.Pronte a' suoi cenni stanle d'ambo i latiDue Dive, dal cui sdegno e dal cui risoPendon de l'universo incerti i fati.L'una è soave e mansueta in viso,E stringe con la destra il santo ulivo,E il mondo rasserena d'un sorriso.E l'altra è la ministra di Gradivo,Che si pasce di gemiti e d'affanni,E tinge il lauro in sanguinoso rivo.Due bandiere scotean de l'aure i vanni;Su l'una scritto sta: Pace a le genti,Su l'altra si leggea: Guerra ai Tiranni.Taceano al lor passar l'ire de' venti,Che, survolando intorno al sacro scritto,Lo baciavano umili e reverenti.Quinci è Colei, che del comun dirittoVindice, a l'ima plebe i grandi agguaglia,Sol diseguai per merto o per delitto;E se vede che un capo in alto saglia,E sdegni assoggettarsi a la sua libra,Alza la scure adeguatrice, e taglia.E con la destra alto sospende e libraL'intatta inesorabile bilancia,Ove merto e virtù si pesa e libra.Non del sangue il valor, ch'è lieve ciancia,E tanto nocque alle cittadi, e nuoce;E sal Lamagna, e 'l seppe Italia e Francia.Dolce in vista ed umano e in un feroceQuindi era il patrio Amor, che ai figli suoiIl cor con l'alma face infiamma e cuoce;E i servi trasformar puote in Eroi,E non teme il fragor di tue ritorte,O Tirannia, né de' metalli tuoi;Non quella cieca che si chiama sorte,Che i vili in Ciel locaro, e fecer Diva;E scritto ha in petto: O Libertate o morte.D'ogn'intorno commosso il suol fioriva,L'aura si fea più pura e più serena,E sorridea la fortunata riva.E a color che fuggir l'aspra catena,Prorompeva su gli occhi e su le labbiaImpetuosa del piacer la piena;Come augel, che fuggì l'antica gabbia,Or vola irrequieto tra le frondi,Rade il suol, poi si sguazza ne la sabbia.Quindi s'udian romor cupi e profondi,Un franger di corone e di catene,Un fremer di Tiranni moribondi.Impugnando un flagel d'anfesibeneLa Tirannia giacevasi da canto,E si graffiava le villose gene.E i torbid'occhi si copria col manto;Ché la luce vincea l'atre palpebre,E le spremea da le pupille il pianto;Come notturno augel, che le latebreOspiti cerca allor che il Sole incalzaNe' buj recinti l'orride tenebre.Èvvi una cruda, che uno stile innalza,E 'l caccia in mano a l'uomo e dice: Scanna,E forsennata va di balza in balza.Nera coppa di sangue ella tracanna,E lacerando umane membra a brani,Le spinge dentro a l'insaziabil canna.E con tabe-grondanti orride maniI sacrileghi don su l'ara pone,E osa tendere al Ciel gli occhi profani.Che più? Sue crudeltati ai Numi appone,E fa ministro il Ciel di sue vendette;E il volgo la chiamò Religione.Si scolorar le faccie maledette,E l'una a l'altra larva s'avviticchia,E stan fra lor sì avviluppate e strette,Che il cor de l'una al sen de l'altra picchia,Ansando in petto, e trabalzando, e posciaLa coppia abbominosa si rannicchia.Qual'è lo can che tremando s'accoscia,Se il signor con la verga alto il minaccia,Tal ristrinsersi i mostri per l'angoscia.Ma poi che di quell'altra in su la facciaVide languir la moribonda speme,Colei che in sacri ceppi il volgo allaccia,Incorolla dicendo: E mute insiemeMorremo e inoperose? e il nostro luttoFia di letizia a chi 'l procaccia seme?Tutto si tenti e si ritenti tutto;E se morire è forza pur, si moja ,Ma acerbo il mondo ne raccolga frutto.Qualunque aspira a Libertate moja,Né onor di tomba o pianto abbia il ribaldo.E l'altra surse e gorgogliava: Moja.Moja, sì moja, e temerario e baldoCerchi in Inferno Libertade; il fioPaghi col sangue fumeggiante e caldo.Acuto allor s'intese un sibilioVia per le chiome ed un divincolarsiE di morsi e percosse un mormorio.Poscia terribilmente sollevarsiE un barlume di speme fu vedutoBrillar sui ceffi lividi e riarsi;Come allor che nel fosco aer sparutoIn fra 'l notturno vel si mostra e fuggeUn focherello passeggiero e muto.L'infame coppia si rosicchia e suggeDi preda ingorda la terribil ugna,Si picchia i lombi risonanti e rugge.Contra miglior voler voler mal pugna ;E fra la vil perfidia e la virtuteSecura è sempre e disegual la pugna.Ma stavan l'aure pensierose e mute,E il Ciel di brama e di timor conquiso,E pendevan le rive irresolute.La Dea mirolle, e rise un cotal risoDi scherno e di disdegno, che dipingeDi gioja al giusto, al rio di tema il viso.E immobile in suo seggio il cocchio spingeSu le attonite larve, e le fracassa,E l'auree rote del lor sangue tinge.Né per timore o per desio s'abbassa,Ma disdegnosa e nobile in sua possaAlteramente le sogguarda, e passa.Fumò la terra di quel sangue rossa,Ond'esalava abbominoso lezzo,E da l'ime radici ne fu scossa.Ondeggia, crolla, e alfin si spacca, il mezzoApre del sen tenebricoso, e ingojaQuei vituperj, e parne aver ribrezzo.Quinci acuto s'udì grido di gioja,E quindi un fioco rimbombar di duolo,Simile a rugghio di Leon che moja.S'alzò tre volte, e tre ricadde al suoloSpossata e vinta l'Aquila grifagna,Ché l'arse penne ricusaro il volo.Alfin, strisciando dietro a la campagna,Le mozze ali e le tronche ugne, fuggioA gl'intimi recessi di Lamagna.Allor prese i Tiranni un brividio,Che gli fe' paventar de la lor sorte,E mal frenato in su le gote uscio,E gliele tinse d'un color di morte.
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