Le poesie di Alessandro Manzoni: In morte di Carlo Imbonati (a Giulia Beccaria sua madre)
ID Autore: 2338 ID Testo: 8730
Testo online da domenica 10 novembre 2013 Ultima modifica del domenica 10 novembre 2013 Scritto nel 1806
In morte di Carlo Imbonati (a Giulia Beccaria sua madre)
Se mai più che d'Euterpe il furor santo,E d'Erato il sospiro, o dolce madre,L'amaro ghigno di Talia mi piacque,Non è consiglio di maligno petto.Né del mio secol sozzo io già vorreiRimescolar la fetida belletta,Se un raggio in terra di virtù vedessi,Cui sacrar la mia rima. A te soventeCosì diss'io: ma poi che sospirando,Come si fa di cosa amata e tolta,Narrar t'udia di che virtù fu tempioIl casto petto di colui che piangi;Sarà, dicea, che di tal merto peraOgni memoria? E da cotanto esemploNullo conforto il giusto tragga, e nullaVergogna il tristo? Era la notte; e questoPensiero i sensi m'avea presi; quando,Le ciglia aprendo, mi parea vederloDentro limpida luce a me venire,A tacit'orma. Qual mentita in tela,Per far con gli occhi a l'egra mente inganno,Quasi a culto, la miri, era la faccia.Come d'infermo, cui feroce e lungoMalor discarna, se dal sonno è vinto,Che sotto i solchi del dolor, nel voltoMostra la calma, era l'aspetto. ApertaLa fronte, e quale anco gl'ignoti affida:Ma ricetto parea d'alti pensieri.Sereno il ciglio e mite, ed al sorrisoNon difficile il labbro. A me dappressoPoi ch'e' fu fatto, placido del lettoSu la sponda si pose. Io d'abbracciarlo,Di favellare ardea; ma irrigiditaDa timor da stupor da reverenzaStette la lingua; e mi tremò la palma,Che a l'amplesso correva. Ei dolcementeIncominciò: Quella virtù, che creaDi due boni l'amor, che sian tra loroConosciuti di cor, se non di volto,A vederti mi tragge. E sai se, quandoIl mio cor ne le membra ancor battea,Di te fu pieno; e quanta parte avestiDe gli estremi suoi moti. Or poi che datoNon m'è, com'io bramava, a passo a passoPer man guidarti su la via scoscesa,Che anelando ho fornita, e tu cominci,Volli almeno una volta confortartiDi mia presenza. Io, con sommessa voce,Com'uom, che parla al suo maggiore, e pensaCiò che dir debba, e pur dubbiando dice,Risposi: Allor ch'io l'amorose e vereNote leggea, che a me dettasti prime,E novissime furo; e la dolcezzaDe l'esser teco presentia, chi dettoM'avria che tolto m'eri! E quando in caldoScritto gli affetti del mio cor t'apersi,Che non saria da gli occhi tuoi veduto,Chiusi per sempre! Or quanto, e come acerboDi te nutrissi desiderio, il pensa.E come il pellegrin, che d'amor presoDi non vista città, ver quella move;E quando spera che la meta il paghiDel cammin duro e lungo, e fiso osservaSe le torri bramate apparir veggia;E mira più da presso i fondamentiPer crollo di tremuoto in su rivolti,E le porte abbattute, e fori e caseTutto in ruina inospital converso,E i meschini rimasti interrogando,Con pianto ascolta raccontar dei pregiE disegnar dei siti; a questo modoIo sentia le tue lodi; e qual tu fostiDi retto acuto senno, d'incolpatoCostume, e d'alte voglie, ugual, sincero,Non vantator di probità, ma probo:Com'oggi al mondo al par di te nessunoGusti il sapor del beneficio, e sentaDolor de l'altrui danno. Egli ascoltavaCon volto né superbo né modesto.Io rincorato proseguia: se cura,Se pensier di quaggiù vince l'avelloCerto so ben che il duol t'aggiunge e il piantoDi lei che amasti ed ami ancor, che tutto,Te perdendo, ha perduto. E se possanzaDi pietoso desio t'avrà condottoFra i tuoi cari un istante, avrai vedutoGrondar la stilla del dolor sul primoBacio materno. Io favellava ancora,Quand'ei l'umido ciglio e le man giunteAlzando inver lo loco onde a me venne,Mestamente sorrise, e: se non fosseCh'io t'amo tanto, io pregherei che rattoQuell'anima gentil fuor de le membraPrendesse il vol, per chiuder l'ali in gremboDi Quei, ch'eterna ciò che a Lui somiglia.Ché finch'io non la veggo, e ch'io son certoDi mai più non lasciarla, esser felicePienamente non posso. A questi accentiChinammo il volto, e taciti ristemmo:Ma per gli occhi d'entrambi il cor parlava.Poi che il pianto e i singulti a le paroleDieder la via, ripresi: a le sue piagheSarà dittamo e latte il raccontarleChe del tuo dolce aspetto io fui beato,E ridirle i tuoi detti. Ora, per leiTen prego, dammi che d'un dubbio feroToglierla io possa. Allor che de la vitaFosti al fin presso, o spasimo, o difettoDi possanza vital feceti a gli occhiIl dardo balenar che ti percosse?O pur ti giunse impreveduto e mite?Come da sonno, rispondea, si solveUom, che né brama né timor governa,Dolcemente così dal mortal carcoMi sentii sviluppato; e volto indietro,Per cercar lei, che al fianco mio si stava,Più non la vidi. E s'anco avessi innanziSaputo il mio morir, per lei soltantoAvrei pianto, e per te: se ciò non era,Che dolermi dovea? Forse il partirmiDa questa terra, ov'è il ben far portento,E somma lode il non aver peccato?Dove il pensier da la parola è sempreAltro, e virtù per ogni labbro ad altaVoce lodata, ma nei cor derisa;Dov'è spento il pudor; dove sagaceUsura è fatto il beneficio, e bruttaLussuria amor; dove sol reo si stimaChi non compie il delitto; ove il delittoTurpe non è, se fortunato; doveSempre in alto i ribaldi, e i buoni in fondo.Dura è pel giusto solitario, il credi,Dura, e pur troppo disegual, la guerraContra i perversi affratellati e molti.Tu, cui non piacque su la via più tritaLa folla urtar che dietro al piacer correE a l'onor vano e al lucro; e de le saleAl gracchiar voto, e del censito volgoAl petulante cinquettio, d'amiciCeto preponi intemerati e pochi,E la pacata compagnia di quelliChe, spenti, al mondo anco son pregio e norma,Segui tua strada; e dal viril propostoNon ti partir, se sai. Questa, risposi,Qualsia favilla, che mia mente alluma,Custodii, com'io valgo, e tenni vivaFinor. Né ti dirò com'io, nodritoIn sozzo ovil di mercenario armento,Gli aridi bronchi fastidendo e il pastoDe l'insipida stoppia, il viso torsiDa la fetente mangiatoia; e francoM'addussi al sorso de l'Ascrea fontana.Come talor, discepolo di tale,Cui mi saria vergogna esser maestro,Mi volsi ai prischi sommi; e ne fui presoDi tanto amor, che mi parea vederliVeracemente, e ragionar con loro.Né l'orecchio tuo santo io vo' del nomeMacchiar de' vili, che oziosi sempre,Fuor che in mal far, contra il mio nome armaroL'operosa calunnia. A le lor gridaSilenzio opposi, e a l'odio lor disprezzo.Qual merti l'ira mia fra lor non veggio;Ond'io lieve men vado a mia salita,Non li curando. Or dimmi, e non ti gravi,Se di te vero udii che la divinaDe le Muse armonia poco curasti.Sorrise alquanto, e rispondea: QualunqueDi chiaro esempio, o di veraci carteGiovasse altrui, fu da me sempre avutoIn onor sommo. E venerando il nomeFummi di lui, che ne le reggie primoL'orma stampò dell'Italo coturno:E l'aureo manto lacerato ai grandi,Mostrò lor piaghe, e vendicò gli umili;E di quel, che sul plettro immacolatoCantò per me: Torna a fiorir la rosa.Cui, di maestro a me poi fatto amico,Con reverente affetto ammirai sempreScola e palestra di virtù. Ma sdegnoMi fero i mille, che tu vedi un tantoNome usurparsi, e portar seco in PindoL'immondizia del trivio e l'arroganza,E i vizj lor; che di perduta famaVedi, e di morto ingegno, un vergognosoFar di lodi mercato e di strapazzi.Stolti! Non ombra di possente amico,Né lodator comprati avea quel sommoD'occhi cieco, e divin raggio di mente,Che per la Grecia mendicò cantando.Solo d'Ascra venian le fide amicheEsulando con esso, e la mal certaCon le destre vocali orma reggendo:Cui poi, tolto a la terra, Argo ad Atene,E Rodi a Smirna cittadin contende:E patria ei non conosce altra che il cielo.Ma voi, gran tempo ai mal lordati fogliSopravissuti, oscura e disonestaCanizie attende. E tacque; e scosso il capo,E sporto il labbro, amaramente il torse,Com'uom cui cosa appare ond'egli ha schifo.Gioia il suo dir mi porse, e non ignotaBile destommi; e replicai: deh! vogliLa via segnarmi, onde toccar la cimaIo possa, o far che, s'io cadrò su l'erta,Dicasi almen: su l'orma propria ei giace.Sentir, riprese, e meditar: di pocoEsser contento: da la meta maiNon torcer gli occhi: conservar la manoPura e la mente: de le umane coseTanto sperimentar, quanto ti bastiPer non curarle: non ti far mai servo:Non far tregua coi vili: il santo VeroMai non tradir: né proferir mai verbo,Che plauda al vizio, o la virtù derida.O maestro, o, gridai, scorta amorosa,Non mi lasciar; del tuo consiglio il raggioNon mi sia spento; a governar rimaniMe, cui natura e gioventù fa ciecoL'ingegno, e serva la ragion del core.Così parlava e lagrimava: al mioPianto ei compianse, e: non è questa, disse,Quella città, dove sarem compagniEternamente. Ora colei, cui figlioSe' per natura, e per eletta amico,Ama ed ascolta, e di filial dolcezzaL'intensa amaritudine le molci.Dille ch'io so, ch'ella sol cerca il piedeMetter su l'orme mie; dille che i fiori,Che sul mio cener spande, io gli raccolgo,E gli rendo immortali; e tal ne tessoSerto, che sol non temerà né bruma,Ch'io stesso in fronte riporrolle, ancoraDe le sue belle lagrime irrorato.Dolce tristezza, amor, d'affetti milleTurba m'assalse; e da seder levato,Ambo le braccia con voler tendeaA la cara cervice. A quella scossa,Quasi al partir di sonno io mi rimasi;E con l'acume del veder tentando,E con la man, solo mi vidi; e caldaMi ritrovai la lacrima sul ciglio.
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